Sei persa – mi svegliai un giorno
guardando la città
sotto una fitta pioggia di gennaio.
Era un labirinto.
Sono persa – dissi appena a me stessa.
Dietro gli angoli s’erano nascoste
le cose che amavo
e mi restava unicamente
un alfabeto di vecchie abitudini
una vaga astrologia disprezzata.
La città
era il deserto e la sete.
Dove un posto?
Sotto la sabbia giacevano i morti
con ombre di pene sabbiose
senza nome
senza leggenda
senza pietra.
Morti come il silenzio dello specchio
senza ritorno
soltanto sabbia.
Una volta erano entrati qui
cavalli con brio
– dissi a me stessa
e se ne stanno lì,
pietrificati
come lunga catena di cordigliera.
– Quale camuffato fuoco
conservano queste montagne,
sotto quale ghiaccio costante
vive il fiele dei loro silenzi?
Devastato
un bosco di verde attende
ciò che fu fogliame di vivaci uccelli,
ora vasta memoria colpita
dagli zoccoli della cupidigia.
Pensai al dolore degli abitanti
e il dolore era sabbia
pensai ai sogni degli abitanti
e la città era un sogno
senza abitanti
poiché la siccità che prosciuga
le acque accese
poiché il diluvio che diluisce
lo sguardo illuminato
poiché il secondo sole che non fu il sole
non vedi
non so
avevano smesso di pensare a una dimora.
2.
Navigo nell’aria
lontano da ogni percorso
risplendono le montagne
sul filo delle loro ombre.
Un azzurro perpetuo
copre la città.
Il sole è una ruota
che scoppia sopra lo zinco e
sopra le finestre.
La città s’intravede nei riflessi
impossibile lo sguardo
non c’è angolo né contrada
unicamente specchi
vetri di un’ostinata polvere nemica.
Allucinata risalgo le strade
verso lo splendore che non mi regge
e che mi abbatte
accecata nella mia stessa ombra
malata di luce, di rovine, di sabbia.
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