Tra i grandi poeti postbellici italiani, Elio Filippo Accrocca (Cori, 17 aprile 1923 – Roma, 11 marzo 1996) è stato un poeta e scrittore italiano. E’ vissuto sempre a Roma, dove fu allievo di Giuseppe Ungaretti e dove si laureò nel 1947 in Lettere Moderne e Contemporanee con una tesi sulla “Poesia italiana della Resistenza”. La sua importante attività artistica e letteraria nella capitale, la frequentazione e le amicizie con poeti e pittori (tra cui Renzo Vespignani) ha dato vita al cosiddetto “Gruppo di Portonaccio”: allievi delle lezioni di Ungaretti, gli artisti romani tra la fine della guerra e i primi anni cinquanta ebbero in Accrocca l’esponente di riferimento. È stato titolare della cattedra di Storia dell’Arte all’Accademia Statale di Belle Arti di Foggia, di cui è stato anche direttore. Ha diretto, conCesare Vivaldi, i Quaderni del Canzoniere, incontro editoriale tra poeti e pittori, e Piazza Navona, periodico artistico e letterario. Con Raffaello Brignetti e Franco Fano ha curato iQuaderni di Piazza Navona e ha collaborato con numerose riviste letterarie e artistiche (La Fiera letteraria, Critica d’oggi, Poesia e Arte, Contrappunti…); ha tenuto rubriche su molti quotidiani (Il Paese, Il Lavoro, Momento Sera, La Gazzetta del Mezzogiorno, Avanti!, Il Gazzettino…) e in RAI.
Il 19 luglio 1943, in piena seconda guerra mondiale, la casa e l’intero quartiere di San Lorenzo a Roma dove viveva con la famiglia vennero bombardati e distrutti: due anni più tardi, sull’avvenimento scrisse una poesia, senza titolo, che venne inserita nella sua prima opera, Portonaccio, del 1949, che contiene poesie scritte tra il ’42 e il ’47. La sua vita è stata costellata di lutti: la madre scomparsa a soli 31 anni nel 1931, quando Accrocca era bambino; l’unico figlio Stefano muore nel 1973, a soli 18 anni, in un incidente motociclistico (e cui Accrocca dedicò Il superfluo). In seguito perde anche la moglie, affetta da un male incurabile.
Il primo momento poetico di Accrocca (soprattutto nel Portonaccio) riflette le esperienze luttuose della sua vita (la distruzione della guerra, la morte, il dramma sociale) in un’ottica vicina, per esperienze, al neorealismo: in essa comunque confluiscono in modo evidente sia la lezione ungarettiana che le esperienze, più generali, dell’ermetismo, in una ricerca stilistica che lo porta verso la ricerca di una moralità, un senso poetico, un linguaggio e un tono stilistico personale. Dice di lui Ungaretti nella prefazione al volume che la sua poesia è (…) è densa d’affetti di tenerezze, quasi silenziosa. Tuttavia, questa prima lettura, non rende merito alla sua carriera che seppe discostarsi dal lirismo iniziale e, dal post-ermetismo delle origini, seppe coniugare il linguaggio poetico con la realtà degli anni a venire, con le lezioni di Montale e Quasimodo. Europeista convinto, viaggiatore instancabile, ebbe un importante rapporto anche con l’arte pittorica, cercando una via comune della parola e del segno che traghettasse la poesia italiana verso il nuovo millennio.
Della sua opera di sono occupati, oltre a Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Ugo Fasolo, Carlo Betocchi, Luigi Baldacci, Giuseppe Pontiggia, Giacinto Spagnoletti , Andrea Zanzotto. (fonte: wikipedia)
Portonaccio
Portonaccio è un ponte sulla ferrovia,
è un quartiere di povera gente.
Gli uomini, da vivi lo ignorano,
da morti lo abitano.
È questo il ponte che conduce all’isola
dei prati dove muore la città
d’uomini vivi, dove vive il campo
santo dei morti tra convogli radi
al fischio delle fabbriche.
A notte i morti crescono coi tufi
che ardono alla luna.
È questo il ponte che conduce all’isola
dei morti dove vive la pietà
degli uomini che vegliano nel grigio
di queste loro case in miniatura
sepolte dentro gli orti.
A notte i treni passano sui morti
che ridono alla luna.
Ho dormito l’ultima notte
nella casa di mio padre
al quartiere proletario.
La guerra, aborto d’uomini
dementi, è passata sulla
mia casa di San Lorenzo.
Il cuore ha le sue distruzioni
come le macerie di spettri,
eppure il cuore ancora grida,
geme, dispera, ma vive
come la madonna di Raffaello
salvata tra i sassi della mia casa
e un paio di calzoni grigioverdi.
Mi si e’ seccata l’anima,
mi si son logorate le mani
a ricercare il corpo dei miei morti
sepolti senza grida.
Ho chiuso il mio tormento
su questi sassi che a me
celano segreti di morte.
Chi mi staccherà dalle macerie arse,
chi mi quieterà?
San Lorenzo ha sofferto col mio cuore
i suoi vivi e i suoi morti hanno lasciato
in me una strada aperta.
(da Portonaccio)
Figlio, tu non farai certo il poeta
Figlio, tu non farai certo il poeta
denigrato mestiere, bene raro
che in sé racchiude una perla segreta:
moneta antica dal valore amaro.
Il tuo malfermo passo ad altre mura
io guiderò, ma se la mala pianta
dentro il tuo cuore rinverdisse, oh, quanta
radice estirperei… Altra natura,
figlio, ti fiorirà nel sangue e nuova
vita t’allieterà i futuri anni
che s’aprono al tuo sguardo, altra ventura
avrai, diversa sorte,
lontano dagli affanni
dell’inconsulta vita che dà morte.
Tu non conoscerai la zona dove
si giuoca l’amicizia ai tristi dadi.
Se un giorno passerai in mezzo ai radi
poeti, a te il ricordo non sovvenga
del paterno sgomento.
E rifuggir dovrai
le mura, il ponte e il vasto casamento
e la corrotta aria dei quartieri
che accolsero il mio cuore un tempo (ieri)
così remoto che non fa memoria.
Né tu conoscerai le amene dispute
e i disinganni e i falsi ingegni e i queruli
lamenti, né l’incorrisposto affetto;
né familiari ti saranno i nomi,
o figlio mio felice
ad altre rive vòlto,
degli sconvolti amici di tuo padre
pronti alla guerra ed alla insofferenza
per una voce che raggela l’eco
della loro incantata maldicenza.
Maggio 1956
(da Ritorno a Portonaccio)
Chiarificazione
Inviando a Zanzotto
alcuni “Sonetti del carattere”
Zanzotto, d’altra specie è quel tuo cielo
non corrotto da preci e fatto mitico
da pregi in trascendenza. Tu che abiuri
dalle consuete lettere, viva monade,
sai l’inallettevole paesaggio
della mente, anelante vendemmia.
Solìgo, finestra sul tuo orto
indiscusso, la pieve, ecloga (vita
silenziosa), la 2, la tua migliore
sorte che a foglie inverdirà di quercia
resistente sull’orlo…
Andrea,
diamo nomi agli anonimi concetti,
diamo corrente ai fili…
luglio 1962
(da Innestogrammi-Corrispondenze)
La guida
Vorrei essere insensibile
come un oggetto,
una cosa scartata dal destino.
A passo d’uomo
ho ripercorso l’ultima tua strada
per ritrovare l’ombra di un tuo gesto.
Eri tanto, eri tutto:
l’universo si rifletteva in te;
ora che non sei evanescenza: nulla.
Tua madre ha fatto il bucato
con le lenzuola dove dormisti
l’ultima notte: portano il tuo fiato.
Hai compiuto con noi un breve tratto,
ora osserviamo il vuoto che hai lasciato,
occupato soltanto dal ricordo.
Oggi che hai vent’anni
ti ricreiamo con la fantasia
nel luogo che conserva la tua voce.
Mi metto le tue scarpe, i tuoi calzini,
ricammino con te,
ma non so chi dei due sia la guida.
6 luglio 1975
(da Il superfluo)
Il ritorno
Non riesco ad abituarmi
a non vederti più, a non sentirti:
è forse la condanna per chi resta?
Se avessi potuto raccogliere
nel cavo della mano la tua voce,
avrei almeno un’eco del respiro…
La tua aurora ancora scrive: è il fiato
d’una parola che rimane, il segno
della tua presenza indecifrabile.
Oggi due moto per le vie di Roma
(la stessa marca, stessa cilindrata):
ho chiamato, ma hanno accelerato.
Se ripercorro quella litoranea
o sollevo la sabbia di Lavinio,
tra le dita riaffiora il tuo profilo.
La filigrana del viso
torna a emergere dal vuoto,
come a un’estrema lente di follia…
2 settembre 1975
(da Il superfluo)
L’impronta
Se potessi portarti
qualche cosa di quello che hai lasciato
di qua…fammi sapere che desìderi.
Beato chi non sa, chi non ricorda:
la memoria è da uccidere, non l’uomo.
Altro che un dono, la memoria è un peso.
Però se mi mancasse pure lei,
oltre che te, mi resterebbe il nulla:
la condanna sarebbe più straziante.
Le tue cose, gli oggetti col tuo nome
sono tappe del vivere
che ci danno l’impronta dei tuoi passi.
(da Il Superfluo)
Sulla scia di Joyce
… era lui, che dubbio hai?
era Joyce per le strade di Dublino
al pub con l’irish-coffee da bere in coppa
o in quell’altro pub con la guinnes
scura davanti agli occhi
smaltata con quattro centimetri di biacca
panna schiumosa
due panne schiumose
tre panne, quante pinte
sullo stomaco di prima mattina…
Anche il Liffey è ricolmo di biacca
che scorre lenta nel grasso canale
il sole strafottente è di marca nazionale,
sempre un po’ su di giri
la gente di Dublino
con doppia scrittura
e lui gaelico sui manifesti
“torna indietro…”
la torre sul mare di scogli
tra i gabbiani di Dalkey
che sanno di verderame,
da qui comincia la cara e sporca città
con musica da camera in versi
per mischiarsi alla folla irrequieta
con lo schiamazzo facile
e l’ombra di Ulisse che annotta…
Dublino, novembre 1974
(da Bagage)
Discussione
Non c'è ancora nessun commento.